Con la sentenza n. 16804/2020, depositata in cancelleria il 7 agosto 2020, la Prima Sezione Civile della Corte di cassazione si è pronunciata in merito al riconoscimento in Italia dei provvedimenti di scioglimento di matrimonio sciaraitico emessi da un Tribunale sciaraitico palestinese nel 2012.
La vicenda coinvolgeva una coppia di cittadini giordano-italiani, sposati con matrimonio sciaraitico celebrato in Palestina nel 1992.
Nel 2012 il marito esercitava il ripudio unilaterale (talaq) ed il Tribunale sciaraitico – con sentenza non definitiva -scioglieva il matrimonio, mentre con sentenza definitiva dava il nulla osta all’ex marito per un nuovo matrimonio. Questi provvedimenti venivano trascritti nei registri dello stato civile in Italia.
L’ex moglie adiva la Corte d’appello di Roma per chiedere la cancellazione della detta trascrizione.
Il Giudice italiano dichiarava che entrambe le sentenze del Tribunale sciaraitico non avevano i requisiti di legge per il riconoscimento in Italia della loro efficacia, con ordine all’Ufficiale di Stato civile di procedere alla cancellazione della trascrizione a margine dell’atto di matrimonio.
La Corte d’appello ravvisava la violazione della Legge n. 218/1995, in particolare dell’art. 64.
Questo articolo dispone che la sentenza straniera sia riconosciuta in Italia senza alcun procedimento quando:
- il giudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano;
- l’atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa;
- le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale legge;
- essa è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata;
- essa non è contraria ad altra sentenza pronunziata da ungiudice italiano passata in giudicato;
- non pende un processo davanti a un giudice italiano per ilmedesimooggetto e fra le stesse partiche abbia avuto inizio primadel processo straniero;
- le sue disposizioni non produconoeffetti contrariall’ordine pubblico.
Secondo il Giudice italiano il Tribunale straniero non aveva effettuato alcun accertamento sul venir meno in concreto della comunione di vita dei coniugi ed era inoltre stato violato il diritto di difesa in quanto “il procedimento giudiziale in questione è basato unicamente sulla manifestazione della volontà del marito, senza che lo stesso debba addurre motivazione …, senza possibilità di opposizione da parte della moglie, senza alcun contraddittorio reale (non essendo la mera notizia del procedimento avuta dalla ricorrente utile in tal senso) e senza che per la moglie sia previsto analogo diritto (ripudio senza motivazione)”. Secondo il Giudice italiano non risultava la verbalizzazione davanti al Tribunale straniero del consenso da parte della moglie e l’affermazione del marito in merito era una mera asserzione unilaterale, mentre comportamenti della moglie successivi alla sentenza non definitiva, quali rientrare in Italia e prelevare dal conto corrente del marito l’equivalente della restituzione della dote, dimostravano solamente la consapevolezza dell’irrevocabilità del ripudio.
Avverso la sentenza della Corte d’appello veniva proposto ricorso per cassazione.
Venivano lamentati l’omessa indagine da parte del Giudice italiano della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della sentenza straniera e l’omesso accertamento della portata della legge straniera applicabile, in assenza dell’indagine sulle modalità di svolgimento del processo davanti al Tribunale sciaraiticosecondo gli artt. 14 e 15 della Legge n. 218/1995 (per cui il giudice può avvalersi, oltre che degli strumenti indicati dalle convenzioni internazionali, di informazioni acquisite per il tramitedel Ministero di grazia e giustizia, può interpellare esperti o istituzioni specializzate e deve applicare la legge stranierasecondo i criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo suoi propri).
Veniva inoltre dedotto che risultava da certificato del Tribunale sciaraitico che – a seguito del talaq – era stata “richiamata la sposa” al fine di vagliare l’effettivo venir meno della comunione materiale e spirituale dei coniugi, e che il talaq del marito è revocabile e comporta gli stessi effetti della separazione personale dei coniugi nel mondo occidentale, permanendo il matrimonio palestinese e rimanendone sospesi gli effetti per tre mesi.
Non vi era quindi contrarietà all’ordine pubblico ex art. 64 lettera g) della Legge n. 218/1995.
Veniva poi contestata la violazione e falsa applicazione della normativa in materia di conoscenza dell’esistenza del giudizio e diritti essenziali della difesa ex art. 64 lettera b) della Legge n. 218/1995; si riteneva infatti che il Giudice italiano non avesse rilevato che la moglie era comparsa in Tribunale in Palestina, accompagnata dalla madre.
Da ultimo si faceva rilevare come la normativa straniera vigente parifichi marito e moglie nel diritto di agire e resistere in giudizio e che il divorzio sia preceduto da un tentativo di conciliazione, con pronuncia dello stesso a seguito dell’accertamento dell’effettività del venir meno dell’unione materiale e spirituale tra i coniugi.
La Corte di cassazione ritiene le censure infondate e argomenta in tal senso:
a seguito di un breve excursus su cosa sia il talaq, la Suprema Corte esclude in un primo momento l’applicabilità dell’art. 64 della Legge n. 218/1995, relativo alle sentenze, in quanto considera eventualmente applicabile l’art. 65 della medesima Legge, posto che il ripudio può non conseguire ad un atto equiparabile ad una sentenza.
L’art. 65 suddetto si applica ai provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità e prevede un sistema di riconoscimento più agile di quello riservato alle sentenze.E’ infatti sufficiente che i provvedimenti siano stati pronunciatidalle autorità delloStato la cui legge è richiamata dalle normedella Legge n. 218/1995, non siano contrari all’ordine pubblico e che per la loro emissione siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa.
Viene poi illustrato lo stato della giurisprudenza italiana sul riconoscimento del ripudio islamico: le corti di merito (dal 1948, eccezion fatta per la Corte d’appello di Cagliari nel 2008) hanno rigettato le richieste di riconoscimento di ripudi dichiarati da tribunali islamici; ugualmente la Corte di Cassazione si è pronunciata sfavorevolmente negli anni, sia per contrarietà all’ordine pubblico interno – strettamente nazionale – sia per contrarietà all’ordine pubblico internazionale. La Corte di Cassazione cita inoltre le disposizioni della CEDU ed un provvedimento cardine in materia, la sentenza della Corte di Giustizia europea del 20 dicembre 2017 “SohaSahyouni contro RajaMamisch”, in cui si statuisce che i “divorzi privati”, come il ripudio unilaterale, non rientrano tra i casi di divorzio contemplati dalle norme europee di conflitto.
Se si assumesse questo indirizzo, afferma la Corte di Cassazione, il ripudio non costituirebbe nemmeno un “provvedimento” ai sensi dell’art. 65 della Legge n. 218/1995, in quanto rimarrebbe “un atto privato di volontà, sia pure reso davanti ad un’autorità religiosa locale, che si limita ad autenticarlo”.
Rispetto alla legge palestinese vigente, a seguito di accertamenti svolti dalla Corte di cassazione, risulta che la legge richiamata dal ricorrente non è mai entrata in vigore, permanendo l’applicazione della normativa del 1959 e del 1976, che non dà garanzie sulla parità delle parti, il consenso della moglie ed il suo diritto di difesa.
Per concludere, la Corte di cassazione ritiene che sia comunque necessario, nel caso concreto, riconoscere al Tribunale sciaraiticopalestinese l’inserimento nel sistema giurisdizionale dello stato straniero, così che le sue decisioni non possono essere ridotte alla mera presa d’atto di un divorzio privato operata da un organo senza giurisdizione. Queste decisioni devono essere tuttavia passate al vaglio del rispetto dell’ordine pubblico internazionale, inteso come complesso di principi fondanti e caratterizzanti l’atteggiamento etico – giuridico dell’Ordinamento in un dato periodo storico: nel concetto di ordine pubblico rientrano il principio di uguaglianza e il principio di non discriminazione tra sessi, il diritto di difesa ed il principio per cui un matrimonio può essere sciolto sul solo presupposto dell’accertamento del disfacimento della comunione di vita familiare.
Questi principi risultano alla Corte non rispettati nel caso concreto.
La Cassazione richiama:
- artt. 2, 3, 29 e 111 Cost.;
- artt. 6 e 14 CEDU;
- art. 5 del settimo protocollo addizionale CEDU;
- art. 15 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.
Stando agli atti, la Corte afferma:
- che la moglie aveva ricevuto la notifica della registrazione del ripudio revocabile da parte del marito senza avervi potuto prendere parte;
- che la moglie non aveva ricevuto notifica dell’avvio della seconda parte del procedimento, volto ad accertare l’irrevocabilità del ripudio, che si svolta in sua assenza;
- che ciò è incompatibile con il principio del diritto di difesa e con la garanzia dell’effettività del contraddittorio;
- che l’accertamento da parte del Tribunale sciaraitico dell’effettiva cessazione della comunione tra i coniugi o della possibilità di una sua ricomposizione o continuazione è risultato del tutto carente;
- che non è quindi realizzato il presupposto dello scioglimento del vincolo matrimoniale;
- che l’istituto del ripudio in base alla legge giordana applicabile in Palestina risulta discriminatorio per la donna, dipendendo lo scioglimento del matrimonio da una dichiarazione unilaterale e potestativa del solo marito.
Da tutto quanto sopra la Corte di cassazione ricava il seguente principio di diritto: “Una decisione di ripudio emanata all’estero da un’autorità religiosa (nella specie tribunale sciaraitico, in Palestina), seppure equiparabile, secondo la legge straniera, ad una sentenza del giudice statale, non può essere riconosciuta all’interno dell’ordinamento giuridico statuale italiano a causa della violazione dei principi giuridici applicabili nel foro, sotto il duplice profilo dell’ordine pubblico sostanziale (violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna; discriminazione di genere) e dell’ordine pubblico processuale (mancanza di parità difensiva e mancanza di un procedimento effettivo svolto nel contraddittorio reale”.